“Un giudicato longobardo del 970 in Terra d’Otranto” è il titolo del saggio di Giulio Mastrangelo (Cultore della materia presso la Cattedra di Storia del Diritto Italiano, Diritto Comune e Storia delle Codificazioni Moderne della II Facoltà di Giurisprudenza di Taranto – Università degli studi di Bari “Aldo Moro” dal 2009) pubblicato negli Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto (Anno IV, ed. Cacucci 2011).
Il saggio (scaricabile e consultabile gratuitamente qui) è corredato da una splendida foto della pergamena, conservata nell’Archivio di Montecassino, su cui è scritto il documento, una delle fonti più interessanti per lo studio del diritto longobardo in Puglia durante l’Alto Medioevo. Già trascritto dal Carabellese (1905) e dal Gallo (1914), il prezioso documento, redatto in Castello Massafra nel novembre dell’anno 970, viene fatto oggetto di una nuova e più puntuale trascrizione e, soprattutto, di uno studio storico giuridico approfondito.
Pur se emesso nel nome degli imperatori bizantini Giovanni Zimisce, Basilio e Costantino (che governavano in quel tempo) e pur se il gastaldo è un greco, tale Trifilio, il giudicato è da ricondurre, sia per il lessico usato sia per gli istituti richiamati, all’Editto di Rotari e dunque al diritto – in particolare al processo – longobardo. La cosa non deve meravigliare. Sappiamo infatti che il diritto longobardo aveva messo così profonde radici in Puglia che costituiva diritto vigente anche sotto il dominio bizantino. Quando nel 967 i Bizantini riconquistano Taranto, invece di imporre il loro diritto e la loro lingua, prendono atto della realtà e si adattano al diritto vivente; invece di cambiarlo, traducono in greco la raccolta di leggi longobarde, ad uso dei funzionari imperiali inviati nelle nostre province ad amministrare la giustizia. Lo dimostra il Cod. Parigino greco 1384, in cui è compresa la traduzione di parte dell’Editto di Rotari, per il quale si è ipotizzato che sia stato composto «nei dintorni di Taranto, o addirittura nella stessa città di Taranto».
Dopo aver tratteggiato l’evoluzione del processo longobardo (dalla faida al processo) e della potestà giudiziaria (prima appannaggio esclusivo dell’assemblea degli uomini armati [arimanni/exercitales] e quindi di esclusiva titolarità del re che l’attribuiva alla curia regis e, a cascata, ai duchi, ai gastaldi e/o actores regii e agli sculdasci), si illustrano le funzioni amministrative e giurisdizionali affidate dalla legge ai gastaldi che, sia in Puglia che a Taranto, nelle scarse fonti sono attestati in diplomi del 747 e del 774 nonchè in atti privati di IX e X sec.. Entrando nel vivo della vicenda processuale, si nota l’assenza della fase introduttiva del giudizio: i ricorrenti (Ilario abate e Leone presbitero del monastero di San Pietro in Taranto), già comparsi davanti al gastaldo, formulano due distinte accuse (lo spossessamento di un fondo recintato e il danneggiamento di 5 termiti) nei confronti di tale Iocardo figlio di Sabbatino. Quindi il Giudice, facendo uso dei suoi poteri, procede all’interrogatorio dell’accusato e, stante la negazione dell’accusa da parte di questi e la richiesta dei ricorrenti di ammissione del giuramento, emette il sacramentum iudicatum imponendo alle parti la previa prestazione della reciproca wadia/guadia.
A questo punto, si verifica un colpo di scena. Iocardo non se la sente né di giurare né di indicare testimoni per il giuramento e propone una definizione bonaria. La proposta viene accettata dai ricorrenti e il gastaldo, previa prestazione di nuova reciproca wadia/guadia, dispone che la causa venga definita col giuramento del presbitero Leone, uno dei due ricorrenti. Il giuramento non avviene in Castello Massafra ma sul terreno in contestazione (clausuria) ove le parti, il gastaldo e i testimoni, tutti insieme, si recano il giorno stabilito. Con in mano i sancta Dei evangelia, il presbitero Leone perlustra tutto quanto possedeva Iocardo e quindi presta il solenne giuramento ponendo fine alla causa. Ne segue il rilascio del fondo detenuto senza titolo da Iocardo in favore dei presbiteri vittoriosi.
Infine, il processo si chiude con la redazione del giudicato fatta eseguire dal gastaldo (rogatio) e che avviene nel Castello di Massafra per mano del decano e notaro Giovanni. In calce al documento, a conferire efficacia e autenticità al contenuto dell’atto processuale, figurano le firme del gastaldo e dei notabili che lo assistono.
In base alle norme dell’Editto, l’epoca dello spoglio viene fissata tra l’anno 941 e il 964 (cioè nel periodo di caos istituzionale e politico seguito alla distruzione di Taranto del 927) e, in base ai termini fissati dalle norme dello stesso per il compimento dei singoli atti processuali (citazione privata, datio wadia/guadia e nomina del fideiussore, nuova datio wadia/guadia dopo l’accettazione della proposta di composizione bonaria, espletamento del giuramento in loco, redazione e sottoscrizione del giudicato), si ipotizza che il processo sia durato al massimo due mesi.
Siamo grati a Giulio Mastrangelo perchè, muovendosi con disinvoltura tra gli istituti del processo longobardo, ci fa conoscere in modo approfondito il giudicato del 970, già edito da oltre un secolo ma che nessuno sinora a livello accademico aveva sentito il bisogno di studiare sia dal punto di vista storico che giuridico. Gli siamo altresì grati perchè, attraverso i suoi scritti, ci fa uscire dalle nebbie e dalle leggende che ancora si scrivono sul Medioevo e ci fa conoscere Massafra prima del Mille, una società viva e reale governata da un gastaldo greco, assistito da notabili latini (tra cui alcuni ecclesiastici), dove è saldamente radicato il diritto longobardo, in cui si muovono personaggi reali, monaci e laici, che disputano per il possesso di fondi recintati da muri a secco, ove regna incontrastato l’olivo.