Piccolo dialogo con Hugues de Varine sugli ecomusei

di Stefano Buroni, terraceleste.wordpress.com

1) Qual è secondo lei, al giorno d’oggi, il senso dei luoghi?
Io generalmente parlo di territorio, cioè di uno spazio di dimensioni variabili che ha un senso per una popolazione che l’abita e lo condivide: un villaggio, una vallata, una comunità montana, un quartiere di città. Questo territorio deve avere un’unità e una identità (geografica, storica, culturale, economica), ma alla fine, è la comunità che deciderà di sceglierlo perché ha un senso per essa. Bisogna anche rendersi conto che un territorio è sempre legato ad altri territori più grandi (le province per esempio) o vicini (la vallata vicina, per esempio).
2) Come si lega il luogo alla comunità e al suo patrimonio culturale?
Il territorio è necessariamente legato alla comunità poiché è stato scelto da questa e ha un senso per essa. Il patrimonio che si trova nel territorio è quello della comunità. Bisogna osservare che il patrimonio della comunità è globale e comprende anche il patrimonio privato dei membri stessi della comunità. Le foto di famiglia o gli utensili dell’uomo che si trovano in casa vostra, e la stessa vostra casa fanno parte “moralmente” e culturalmente del patrimonio della comunità e questa (cioè l’ecomuseo che la rappresenta) deve poterli utilizzare un giorno, con il vostro accordo. E’ la comunità che ha prodotto storicamente il suo patrimonio, che lo utilizza, che lo trasforma, o lo arricchisce.
3) Che cosa è un ecomuseo e cosa non è?
Ci sono diverse definizioni di ecomuseo e quella relativa alla legge varata dalla regione Lombardia non è peggiore delle altre. Ma tutte le definizioni sono imperfette e talmente complicate che rimane difficile comprenderle. Per me (l’ecomuseo) è una azione portata avanti da una comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo. L’ecomuseo è quindi un progetto sociale, poi ha un contenuto culturale e infine s’appoggia su delle culture popolari e sulle conoscenze scientifiche. Quello che non è: una collezione, una trappola per turisti, una struttura aristocratica, un museo delle belle arti etc. Un ecomuseo che sviluppa una collezione importante e ne fa il suo obbiettivo non è più un ecomuseo, poiché diventa schiavo della sua collezione.
4) E’ l’ecomuseo che si occupa della comunità o il contrario?L’ecomuseo serve la comunità, appartiene alla comunità. Al contrario l’iniziativa di un ecomuseo può venire da una persona, da una amministrazione comunale, da una associazione, ed integrarsi solamente in seguito nella comunità. Se la comunità non si interessa al suo ecomuseo, questo o sparisce, o diviene un museo ordinario. E’ questa la ragione per cui un ecomuseo non può come avere come obbiettivo il turismo. Il turismo diventerà un obiettivo dell’ecomuseo solo quando la popolazione (la comunità) sarà pronta a ricevere questo tipo di turismo.
5) Quali sono le principali dinamiche socio-economiche che sorgono da un ecomuseo?
Non ci sono due ecomusei simili e tutti gli ecomusei devono essere adattati alla situazione della comunità e del territorio. Questo significa che è l’ecomuseo che deciderà le sue dinamiche socio-economiche prioritarie. Potrebbe essere la formazione di attori locali alla vita civica o economica, o la capacità di cambiamento e per esempio la realizzazione di una Agenda 21 per lo sviluppo sostenibile del territorio, oppure la trasmissione di tradizioni o di valori alle giovani generazioni, o la rinascita di una attività economica, oppure la presa d’iniziativa delle donne, o una certa forma di turismo, etc. Tutto dipende dalla diagnostica iniziale e dal processo dell’ecomuseo che scoprirà progressivamente gli obbiettivi da fissarsi. In seguito ci sarà una questione di mobilitazione delle forze locali, del patrimonio e dei modi trovati dall’esterno.
6) Come giudicate la situazione italiana degli ecomusei, confrontandola con la Francia?
In Italia ci troviamo di fronte ad un concetto di ecomuseo che sembra essere una specie di alternativa alla museologia classica. Questo concetto è riconosciuto a livello regionale e provinciale, mentre il museo è un affare che rientra piuttosto nel patrimonio nazionale. Inoltre gli ecomusei italiani rivelano due dinamiche differenti: da una parte la rivitalizzazione dei territori rurali o periurbani isolati a partire dalle loro risorse e dai loro abitanti, dall’altra la ricerca di una frequentazione turistica “dolce”, molto culturale o ecologica. In Francia, dove la centralizzazione è totale, si ha a che fare con delle iniziative isolate e non assolutamente con un movimento così ampio come in Italia. Il ministro della cultura, che è molto potente, da quarant’anni è molto ostile a qualsiasi forma di museo che non sia quella tradizionale. E’ dunque impossibile paragonare le due realtà.
7) Qual è secondo Lei il futuro degli ecomusei?
E’ legato all’avvenire della “nuova museologia” o alla museologia sociale che corrisponde certamente ad un bisogno della nostra epoca. Ciò dice, ciascun museo avrà un avvenire particolare. Può proseguire per una, due o tre generazioni, oppure sparire semplicemente perché i suoi animatori saranno stanchi o non troveranno i modi per lavorare, o ancora perché la comunità o il territorio avranno degli altri bisogni o dei problemi urgenti ma non patrimoniali. L’ecomuseo può diventare un museo classico con una grande collezione, dei riflessi di pura conservazione e la ricerca di pubblico esterno. L’ecomuseo è un processo che non ha fine in sé, ma che può essere interrotto da ragioni esterne dai suoi obbiettivi di partenza.
Non so se ho risposto alle vostre domande. Ciascuna avrebbe necessità di un lungo dibattito collettivo con diversi “ecomuseologi” che operano su tale campo. Le migliori risposte saranno quelle che troverete in voi stessi, andando sul luogo, visitando gli ecomusei e soprattutto realizzando voi stessi sul vostro territorio e nella vostra comunità delle azioni di tipo ecomuseale. Non è necessario creare un museo per praticare l’ecomuseologia. Non è una professione che si apprende sui libri. Alcuni dei migliori ecomusei che conosco non portano il nome di ecomuseo. Non bisogna lasciarsi ossessionare dalla parola.

L’intervista che sopra ho riportato mi è stata concessa dal prof. De Varine durante un seminario tenutosi a Trezzo sull’Adda il 14 marzo di quest’anno. Si tratta di una veloce, quanto illuminante, riflessione del celebre museologo francese sugli ecomusei, quelle strutture da lui stesso pensate, in quella, ormai lontana, colazione al ristorante “La Flambée” di Parigi nel 1971.
In questo mio breve articolo, non voglio assolutamente fare una lezione su cosa sia un ecomuseo; l’argomento sarà sicuramente noto a chi si appresterà a leggere quest’intervista. Desidererei, invece, seguendo le preziose parole del Prof. de Varine, fare emergere un aspetto importante: il carattere partecipato e sociale che, caratterizzando questa “nuova museologia”, la propone quale miglior antidoto al piatto deserto che offre la modernità prometeica. Tenterò quindi di costruire un piccolo percorso teorico servendomi degli spunti che offre la discussione sopra proposta.
Leggendo le risposte del nostro celebre interlocutore osserviamo, prima di tutto, che la base da cui non si può prescindere per affrontare un discorso su questa disciplina è il luogo o, come più precisamente viene definito, il territorio. De Varine sottolinea chiaramente come questo debba «avere un’unità ed una identità», e come tale caratteristica si leghi ad un altro elemento: le comunità che lo abitano, ovvero, coloro che hanno scelto quel determinato villaggio, quella determinata vallata, quel preciso insediamento urbano come “spazio” della loro vita. Il territorio e la comunità, quindi, due fattori inizialmente distinti, sono destinati ad unirsi, per formare un unico patrimonio culturale condiviso. Definito questo primo punto di partenza, è molto interessante, scorrendo le risposte, leggere come «il patrimonio della comunità è globale e comprende anche il patrimonio privato dei membri stessi della comunità». Teniamo a mente questo punto. Infatti, secondo de Varine, anche i nostri oggetti personali più semplici, quelli che si trovano nelle nostre case, sono parte culturale e “morale” del patrimonio della nostra comunità. Questa considerazione è fondamentale, perché ci permette di comprendere che tipo di azione di salvaguardia dei beni culturali si configuri con gli ecomusei: si tratta, visti i presupposti, di un’azione della comunità; il risultato di un processo che dovrà necessariamente partire da noi stessi. E’ la “cittadinanza”, nei suoi singoli componenti, che decide di salvaguardare il proprio patrimonio.
De Varine ritiene decisivo questo aspetto; lo considera infatti la principale caratteristica che differenzia gli ecomusei dai musei “normali”: l’essere, dunque, «un’azione portata avanti dalla comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo»; osserviamo come questo sia il risultato delle premesse osservate in precedenza. Si può quindi affermare ora con certezza che l’ecomuseo è un progetto sociale, perché abbiamo constatato come le stesse persone che, “vivendo” attivamente il loro patrimonio, se ne prendono cura e decidono partecipativamente di istituire un’azione di questo genere, facendola crescere secondo modalità e tempi propri.
Ciò ha delle ricadute che coinvolgono a tutto tondo una simile attività di tutela, sin dai suoi primi passi. E’ quindi necessario che l’iniziativa di questo progetto di responsabilizzazione generale non si basi su un pre-confezionato progetto astratto, perché smentirebbe già dalla fase embrionale la sua stessa essenza. Essa sarà, da subito, il risultato di un interesse comunitario, poiché se manca un tassello così significante, se la comunità non si interessa al suo futuro ecomuseo, in questa ottica, questo non potrà svilupparsi; rimarrà, tutt’al più, un museo ordinario, una vuota collezione di oggetti che hanno un banale valore espositivo.
Senza una dimensione d’azione sociale non c’è ecomuseologia. Infatti, come possiamo osservare «non ci sono due ecomusei simili e tutti gli ecomusei devono essere adattati alla situazione della comunità e del territorio». Sarà, quindi, la comunità stessa che deciderà quali interventi e quali dinamiche si potranno attivare. E’ per questo che abbiamo sottolineato, come momento fondamentale, il periodo “diagnostico” iniziale, che permetterà di analizzare in modo completo le diverse esigenze che ogni singolo patrimonio esprime; si tratta del momento in cui l’identità torna ad essere al centro dello spazio pubblico, dello spazio “dell’agire comunicativo”, che una comunità viva deve avere per essere tale. Come ci spiega nel suo libro, Le radici del futuro, per de Varine il passo preliminare di questo tipo di museo è quello della conoscenza e mappatura della propria identità culturale. La collettività deve “guardarsi dentro” e, recuperando il proprio territorio, riscoprirà tutte le sue tracce in esso. Da questo momeno “introspettivo” di coscienza collettiva non è possibile prescindere, perché proprio da tale atto di riappropriazione sarà possibile pensare un’attività di tutela efficace.
Sappiamo che gli ecomusei sono nati anche come una risposta alla museologia classica, un tentativo di ripensare questa esperienza in maniera più viva, dinamica, contro l’uniforme formalismo congelante dei grandi istituti che noi tutti conosciamo. Rimanere su questa strada è appunto ciò che deve caratterizzare l’ecomuseo; infatti, esso è tale fino a quando rimane un’azione sociale permanente volta alla salvaguardia attiva e, quindi, alla valorizzazione del proprio patrimonio culturale. Questo sarà possibile solo ed esclusivamente se coloro che l’hanno messo in atto manterranno viva questa tendenza. E’ chiaro che maggiore sarà il lavoro di condivisione e azione sociale del progetto, più alte saranno le probabilità di riuscita; altrimenti si avranno solo dei “bellissimi” parchi a tema che nulla avranno da invidiare alle scimmiottate ricostruzioni storiche che sono una delle principali “trappole turistiche” moderne.
Proprio per questo suo carattere sociale, per questa sua origine spontanea, de Varine ci dice che è difficile prevedere il futuro che attende gli ecomusei: dipenderà tutto dai suoi “gestori”, i quali potranno sviluppare questo progetto nel tempo oppure lasciare, per esigenze o bisogni, diversi da quelli patrimoniali. Insomma, tutto pare dipendere da noi.
E’ in questa conclusione che si legge la sfida che questa museologia pone secondo de Varine: se l’ecomuseo è un “capitale sociale”, siamo noi i protagonisti del nostro futuro, tutelando il nostro territorio e la nostra comunità, possiamo decidere di dare un determinato sviluppo al patrimonio culturale che ci caratterizza. Mi piace sottolineare la considerazione che troviamo alla fine dell’intervista: «le migliori risposte saranno quelle che troverete in voi stessi, andando sul luogo, visitando gli ecomusei e, soprattutto realizzando voi stessi sul vostro territorio e nella vostra comunità delle azioni di tipo ecomuseale». In queste parole, secondo il mio punto di vista, è condensato il significato dell’insegnamento di de Varine. L’ecomuseo non è scritto sui libri o nei rigidi commi di una legge regionale; al contrario, l’ecomuseo siamo noi: qualsiasi persona, di qualsiasi luogo, identità e cultura, può decidere, partendo proprio da se stessa, come parte di una comunità, di costruire consapevolmente una protezione attiva del proprio patrimonio culturale. Soffermandoci un momento su quest’ultimo punto; è immediato osservare come, in un mondo che tende sempre di più a delegittimare le iniziative che partono dal basso, creando giganteschi apparati decisionali sovraindividuali che mischiano tutto in un omologante melting pot culturale, un modo di agire così “singolare” e, lo ripeto ancora, sociale, sia una opportunità da non lasciarci sfuggire. Non bisogna, infine, lasciarsi ossessionare dalla parola, come dice de Varine stesso. I migliori ecomusei che lui ha potuto vedere erano quelli che non avevano questo nome, ma che probabilmente avevano recepito il messaggio che dietro essi si cela: il patrimonio culturale può sopravvivere solamente se è al centro di un’attività condivisa che, indipendentemente dalla forma, sia lo specchio fedele della comunità che l’ha messo in pratica, ed abbia come unico scopo la salvaguardia di tutto quelle ricchezze materiali e immateriali che la caratterizzano. In questo senso l’ecomuseo è un progetto fortemente sociale. Certamente tutto ciò necessiterebbe di un lungo dibattito, ma questo è già un punto di partenza veramente significativo, soprattutto se ci rendiamo conto di cosa esso significhi nella nostra attuale realtà.

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