Nella serata di martedì 10 novembre si è tenuto il primo di una serie di incontri organizzati dall’Archeogruppo nella propria sede di Massafra. Relatore della serata è stato il prof. Roberto Caprara, il quale ha parlato della Massafra alla fine del XV secolo. La conversazione è l’anticipazione dell’ampio commento di cui l’autore ha corredato l’edizione diplomatica di un codice cartaceo del 1463-64 (sino al XVI secolo nelle terre del Sud già appartenute a Bisanzio, l’anno incominciava quattro mesi prima che nelle altre terre, col primo settembre) redatto dall’Erario regio, il notaio Antonio Caricello, che vi ha annotato le entrate e le uscite sino al 31 agosto del 1464. Sottolineato che Massafra era allora città regia, cioè non dipendente da feudatari e che godeva di eccezionali privilegi fiscali, almeno dal 1419, come si apprende da un documento della regina Giovanna II d’Angiò, l’oratore ha delineato brevemente le vicende della fine della dinastia angioina e quelle della dinastia aragonese, dall’entrata in Napoli, nel 1442 di Alfonso il Magnanimo e conseguente fuga in Francia di Renato d’Angiò, sino all’intervento della Spagna nel 1502 che pose fine al Regno di Napoli, che divenne il “Viceregno” una trascurabile e malgovernata parte dell’Impero spagnolo, intraprendendo un inarrestabile cammino di decadenza sociale e culturale che è la remota origine della Questione Meridionale. La lettura del testo del Caricello consente di ricostruire in gran parte l’onomastica e la composizione sociale della Massafra alla fine del secolo XV, di conoscere in parte notevole la composizione del Capitolo dell’Insigne Collegiata, dall’Abate e Arciprete Pirro de Pirris, al Cantore, al Cantore del Capitolo cattedrale di Mottola, a numerosi Canonici. A questo punto il prof. Caprara ha ironizzato sulla sopravvivenza di leggende prive di consistenza storica, come la datazione al tardo Cinquecento dell’antica Chiesa Madre, che invece un attento esame delle strutture vuole iniziata, come la Cattedrale di Matera, nel XIII secolo e terminata dopo il 1324 ma prima del 1350, come dimostrano i portali gotici sulle fiancate, occlusi nel Cinquecento. Gli interventi cinquecenteschi, che ne stravolsero la struttura interna e la facciata, videro l’aggiunta della Cappella del Sacramento, datata erroneamente al Settecento a causa dei dipinti del Carella che ne ornano le pareti, contro ogni evidenza dettata dall’iscrizione all’interno della cupola, che è del tempo di Francesco Pappacoda. Per confronto, ha proiettato un’immagine della Cattedrale di Todi, iniziata anch’essa nel XIII secolo e con facciata rifatta nel XVI. Sempre nella Chiesa Madre è l’attestazione più antica, datata 1533, del vero stemma civico di Massafra: un castello con tre torri simbolo delle città dotate di mura (come gli stemmi di Castellaneta e Ginosa, oltre che di molte città italiane) ed un leone rampante che gli osservatori superficiali hanno interpretato come quello dei Pappacoda. Una conferma di questo stemma si ha nel pavimento del presbiterio di San Benedetto, dove nel 1770 – quando i Pappacoda erano scomparsi da oltre un secolo e mezzo – venne riprodotta l’arma civica in marmi policromi, sicché ne conosciamo i colori: di rosso il castello, d’oro il leone rampante. Il castello con tre torri, espunto il leone che si riteneva dell’ormai dimenticata dinastia Pappacoda è ancora agli inizi dell’Ottocento nel sigillo del Comune di Massafra (atti del 1809 e 1811) e sul portone del Municipio in Piazza Garibaldi. L’ignoranza dell’araldica – e non solo – da parte degli interlocutori massafresi della Consulta Araldica Nazionale fecero sì che questa, non essendo stati prodotti argomenti adeguati, assegnasse al Comune di Massafra l’insulsa ed anonima torre che ancor oggi viene usata. Frutto del dilettantismo e della presunzione di chi discetta senza cognizione di causa e senza aver affrontato la fatica della ricerca, ancor oggi, purtroppo, spesso imperanti a Massafra. Dall’elenco dell’armamento del Castello Caprara desume che fosse in disarmo, tanto che, quando, perduta la libertà, era stata infeudata al transitorio feudatario Antonio Piscicello, questi, che aveva aderito alla seconda Congiura dei Baroni contro Ferrante d’Aragona, negli anni Ottanta del Quattrocento, per mettere a difesa il Castello stesso chiese in prestito bombarde all’Università (Amministrazione comunale) e balestre ai cittadini, armi che si rifiutò di restituire. L’oratore ha parlato a lungo dell’allevamento degli stalloni regi, che erano i Corsieri napolitani (considerati i migliori cavalli del mondo) ed i Murgesi, oggi l’unica antica razza autoctona rimasta in Italia, e del trasferimento di cavalli da Massafra a Napoli. Desunti sempre dal Quaterno, sono i prezzi di molte merci ed oggetti e l’ammontare dei salari (comunque molto bassi) oltre che il potere d’acquisto del denaro. Ha concluso l’esposizione una breve elencazione dei principali termini dialettali e dei latinismi usati nel Quaterno, cosa che non poteva non interessare in modo particolare l’oratore che, ricordiamolo, ebbe una robusta formazione di linguista, alla scuola di Giovanni Nencioni e Giovanni Alessio, prima di dedicarsi all’archeologia ed alla storia.