Nella serata di giovedì 17 dicembre si è tenuto il secondo appuntamento con gli Incontri in Archeogruppo, presso lo Spazio Culturale Domenico Mastrangelo. Relatore della serata è stato il prof. Domenico Caragnano, il quale ha parlato del rinnovamento artistico dei pittori tra la fine del XII e la prima metà del XIV secolo nelle chiese in grotta. Il rapporto tra gotico e presenza dei sovrani angioini nell’Italia Meridionale è in parte vera, anche se le prime avvisaglie della cultura d’oltralpe sono già presenti nella costruzione dell’abbazia del Murgo presso Lentini, intorno al 1225, che rappresenta la volontà di Federico II di avvicinare le nuove tendenze del gotico-circestense dell’Ile-de-France agli stereotipi islamico-bizantini dominanti nel Regno di Sicilia, come dimostra anche una attenta analisi del ritratto di Federico II, conservato al museo di Barletta, che la tradizione vuole che sia stato scolpito da Bartolomeo da Foggia, intorno al 1221, rinvia direttamente al foglio 29 v del Livre de Portraiture di Villard de Honnecourt. Nei libri composti per Manfredi, in particolare la copia del De arte venandi cum avibus (Ms. Vaticano Pal. Lat.1071) trattato scientifico di ornitologia scritto da Federico II o la Bibbia (Vaticano lat. 36) entrambi conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, si evidenzia che le miniature, probabilmente sono state dipinte dalla stesso autore – Johensis scriptor (di Gioia del Colle ?), che conosceva molto bene oltre i libri istoriati francesi, anche i gusti del giovane principe di Taranto, che aveva studiato e soggiornato a Parigi negli anni intorno al 1245. La conquista del regno di Sicilia da parte degli angioini non distrugge del tutto il climax culturale degli Svevi, ad esempio in Puglia continuano ad operare architetti e scultori, come Giordano da Foggia, Nicola di Bartolomeo da Foggia, ma nel contempo si avverte, anche, una forte presenza di artisti provenienti dalla Francia, da dove vengono importate opere d’arte mobile che saranno alla base della conquista culturale degli Angioini. Carlo II, quando nel 1296 riceve da Bonifacio VIII la Basilica di San Nicola come cappella regia, istaura il rito parigino e rifornisce la chiesa di reliquie e libri liturgici provenienti dalla Francia e chiama i più apprezzati artisti come il pittore Giovanni da Taranto; un documento del 1304 ci informa, che tornando da Bari, dove aveva lavorato nella basilica di San Nicola, era stato derubato e percosso presso il Casale di Sant’Erasmo, che gli studiosi individuano per una località vicino a Nola in Campania o Santeramo in provincia di Bari. Ferdinando Bologna ha proposto di attribuirgli la pala con San Domenico e le sue Storie, conservata a Napoli nella Pinacoteca Nazionale di Capodimonte – probabilmente dipinta per la chiesa si san Pietro Martire a Castello, edificata per volontà di Carlo II d’Angiò nel 1300 – e la tavola assai simile, della Madonna col Bambino ora esposta a Bari nella Pinacoteca Provinciale. In un altro cantiere angioino degli inizi del Trecento, il pittore tarantino Rinaldo dipinge e firma un Giudizio Universale sulla controfacciata della chiesa di Santa Maria del Casale presso Brindisi. Giovanni e Rinaldo sono ritenuti due maestri della pittura italiana tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, consapevoli dei forti cambiamenti di gusto che sta attraversando il regno di Napoli, essi mettono a disposizione il loro stile sempre pronto ad aggiornarsi alla cultura d’oltralpe e a quei filoni artistici avanzati provenienti dall’area del Mediterraneo. Numerosi sono i pittori senza nome che hanno lavorato in Puglia a partire dalla fine del XIII secolo, dimostrando di conoscere molto bene l’esperienza artistica di rinnovamento proveniente dai cantieri della basilica di San Francesco ad Assisi e a quelli napoletani di Pietro Cavallini e di Giotto. In provincia di Taranto, a Laterza il pittore che dipinge la Déesis, nella chiesa rupestre di San Giorgio, rompe con gli schemi ben codificati del dipingere alla greca. Il mantello verde e la tunica rosa con lo scollo gallonato in oro, indossati dal Pantocratore, si avvicinano alle nuove cromie dell’arte gotica dell’Italia centro settentrionale, in particolare agli abiti del Cristo rappresentato nell’episodio del sogno di San Martino nella cappella di San Martino della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, dipinto da Simone Martini nel primo decennio del Trecento. L’impostazione della Madonna col Bambino nella chiesa rupestre della Buona Nuova a Massafra, riporta alla tradizione artistica toscana della seconda metà del XIII secolo, in particolare Roberto Caprara confronta con la Madonna col Bambino e Santi affrescata nel Salone dell’opera del duomo di Pisa verso il 1280-1290. Le Madonne col Bambino della chiesa dell’Assunta a Castellaneta, appartengono ai modelli francesi delle Madonne col Bambino in piedi come gli esempi pugliesi del dipinto della Madonna con Bambino nella chiesa dell’Immacolata di Novoli (Lecce) o le sculture monumentali in legno o in pietra di gusto prettamente francese come la Madonna della Vittoria nel duomo di Lucera, che Pierluigi Leone de Castris data tra il 1300 e il 1320. Il cingolo alla vita del Bambino della Madonna col Bambino della chiesa dell’Assunta riporta ad una tradizione francescana non casuale nel Principato di Taranto, come si nota da un altro dipinto rupestre della fine del XIII e la prima metà del XIV secolo: il san Giovanni Battista della Déesis, nella chiesa rupestre di san Giorgio a Laterza, dove il Precursore indossa una veste di colore marrone come i sai francescani. Il Bambino che indossa un saio francescano non è cosa rara ed è legata alla devozione del committente verso il poverello d’Assisi, come dimostrano gli esempi trecenteschi della pittura umbra, in particolare la Madonna col Bambino in trono, dipinto su tavola, realizzato dal Maestro di Cesi nel 1315, proveniente dalla chiesa di san Giovanni a Vallo di Nera ed ora conservato a Spoleto nel Palazzo Vescovile. La chiesa di Santa Maria dell’Assunta presenta alcuni motivi decorativi che si sviluppano sulla facciata e sul fianco meridionale – nel piccolo rosone in parte mutilo, sul portale principale e laterale – sembrano riallacciarsi all’opera dello scultore Pietro Farcitolo, attivo soprattutto nei cantieri proto angioini della Puglia del nord e forse della Dalmazia, e a quella di Anseremo da Trani, in specie per il capitello destro del portale principale. Sulla parete sud della chiesa dell’Assunta di Castellaneta è collocata una Madonna col Bambino, di provenienza rupestre, che è un valido esempio del passaggio artistico dai modelli di tradizione bizantina alle nuove correnti artistiche della cultura gotica presenti tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo in provincia di Taranto. Il pittore nel rappresentare il piccolo Gesù in piedi sulle ginocchia di Maria è consapevole di rompere con gli schemi tradizionali dell’iconografia dell’Odegitria e di avvicinarsi alle esperienze francesi, introdotte nel Regno di Napoli dagli Angioini. La Madonna indossa una veste manicata in azzurro con il bordo del polso della mano destra decorato da un gallone in oro e da perline bianche. Lo scollo della veste è ornato da un largo gallone d’oro impreziosito da smeraldi e rubini di forma ovale, circondati da perle bianche, proprio come per le decorazione delle veste della Madonna col Bambino in trono, del tipo Odegitria nella chiesa rupestre di san Sabino a Mottola, databile tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo.
Altri confronti per le decorazioni dell’orlo della veste impreziosita da smeraldi e rubini è con le vesti delle sante Lucia e Caterina d’Alessandria nella chiesa rupestre della Buona Nuova a Massafra. Il maphorion rosso, finemente decorato agli orli da una fascia giallo ocra e perline bianche, non avvolge la testa e il corpo della Vergine alla maniera bizantina, come si nota in numerose testimonianze artistiche del XIII e XIV secolo: dalle icone lignee pugliesi come la Madonna di Andria o la Madonna della Madia a Monopoli ai dipinti su muro delle chiese rupestri come la Mater Domini nella chiesa di santa Domenica a Laterza e sub divo lucane e pugliesi, come la Madonna della Bruna nella cattedrale di Matera; ma è aperto davanti per mostrare lo scollo della veste. Tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo assistiamo ad un graduale rinnovamento stilistico, anche dei modelli tradizionali mariani come: l’Odegitria, l’Eleousa e la Galaktotrophousa. L’esempio più significativo dell’Odegitria, la Madonna del Buon Cammino, è quello presente nella Buona Nuova di Massafra dove il pittore ha voluto descrivere con accuratezza non solo i volti della Madonna e del Figlio, ma si è soffermato sulle decorazioni del trono e dei vestiti, dimostrando di conoscere il gusto artistico toscano, che si contrappone alle “inespressive” Madonne col Bambino, ancora ancorati ai modi dell’arte comnena matura con la caratteristica di una “smagliante cromia” come quella nel sant’Andrea a Palagianello, datata a pieno XIII secolo. Nel santuario della Madonna delle Grazie a San Marzano di San Giuseppe v’è un bel esempio di Elousa,Vergine della Tenerezza, datato alla prima metà del XIV secolo, dove il Bambino accosta la guancia a quella della Madre mentre si aggrappa al maphorion e col braccio destro cinge affettuosamente le spalle della Vergine, che continua ad essere rappresentata nel modello dell’Odegitria, a differenza della Madonna che con tutte e due le braccia stringe a se il Bambino in santa Margherita a Mottola del XIV secolo. Identica iconografia, attribuibile al XIV secolo, compare, pur coperto in parte da scialbature di calce, in san Gerolamo a Palagianello. Tracce di Madonne della Tenerezza sono visibili a Castellaneta nel Padre Eterno, dove resta la testa della Vergine e parte di quella del Bambino databile alla fine del XIII – prima metà del XIV secolo, e in santa Maria del Soccorso è ancora visibile la mano del Bambino che stringe il maphorion e parte del volto della Vergine, probabilmente della seconda metà del XIV secolo. L’iconografia della Madonna col Bambino più commovente è quella della Galaktotrophousa, che nell’ambito occidentale viene denominata Virgo Lactans, e richiama alla funzione materna di Maria. In santa Margherita a Mottola, il pittore ha voluto esaltare lo stretto rapporto tra la Madre e il Figlio nel gesto della Madonna di stringere tra l’indice e il medio la mammella per aumentare il flusso del latte e quello del Figlio di alzare il viso e prendere la mano della Madre. Nella Mater Domini a Massafra, la Galaktotrophousa pur se rientra nell’ambito della pittura angioina del XIV secolo è impostata alla maniera bizantina. La Vergine è seduta su un trono, coperta dal solito maphorion color rosso, intenta ad allattare il Bambino, vestito con una tunica rossa; il quale con la mano destra stringe la mano della Madre, con la sinistra un cartiglio aperto. Un altro esempio utile nel capire il passaggio dal dipingere alla greca ai nuovi modelli gotici è la decorazione pittorica nella chiesa di san Giorgio a Laterza, con le sue due fasi d’esecuzione. Il primo intervento decorativo è stato eseguito tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo con i dipinti della Déesis, san Pietro e san Giorgio a cavallo che trafigge il drago; mentre il secondo, tra la fine del XIV e il XV secolo, con la realizzazione del grande pannello della Vergine col Bambino e l’episodio di san Giorgio con la principessa Elisabea. L’impostazione della Déesis rientra nel contesto artistico bizantino, ma i dettagli appartengono a quel filone del “volere rappresentare il vero”, già iniziato con Federico II e Manfredi, che arriva ad una maturazione artistica con il nuovo mecenatismo degli angioini. La testa del Pantocratore è l’esempio di questo rinnovamento tra il dipingere “alla greca” per l’impostazione del volto (capelli, occhi, naso, bocca. barba, orecchi) e le nuove tendenze della pittura gotica nell’Italia meridionale, con pennellate che tendono a dare una forma plastica e soprattutto la cura nei particolari come per il colorito delle labbra e nella minuzia descrittiva e cromatica della barba. Se osserviamo i vestiti dei personaggi della Déesis ci accorgiamo che il pittore rivoluziona i moduli ben codificati del dipingere alla greca. Il mantello verde e la tunica rosa con lo scollo gallonato in oro, indossati dal Pantocratore, si allontanano notevolmente dalla tradizione della pittura bizantina, e si avvicinano alle nuove cromie dell’arte gotica dell’Italia centro-settentrionale, in particolare agli abiti del Cristo nell’episodio del Sogno di san Martino nella cappella di san Martino della Basilica inferiore di san Francesco ad Assisi, dipinto da Simone Martini nel primo decennio del Trecento.
LA MODA – Un segno innovativo nella pittura tra la fine del XIII e il XIV secolo è il voler rappresentare oggetti e abiti alla moda, come nel dipinto di san Giacomo con le scene del miracolo dell’impiccato, nel san Giacomo a Laterza, una delle tante testimonianze pittoriche di racconti di vitae di santi presenti nelle chiese rupestri del tarantino. L’icona agiografica che racconta la vita del santo in pubblico corrisponde al miglior modo di onorarlo e promuovere la conoscenza delle sue gesta e virtù ed ha un valore di documento autenticante perché mostra cosa sia realmente successo, rivaleggiando addirittura con la leggenda scritta. Prendiamo in considerazione la scena di san Giacomo che benedice un gruppo di giovani pellegrini, che portano i capelli acconciati “a rullo”, nella tipica moda dei primi decenni del Trecento. Questa acconciatura, una “messa in piega” eseguita con un ferro caldo (il calmistro), era già in uso nel periodo in cui Giotto, quando tra il 1303 e il 1305, dipingeva la cappella dell’Arena a Padova. Le acconciature maschili degli inizi del Trecento evidenziano la tendenza a non lasciarsi cadere i capelli sul collo o sulle spalle, al contrario di quella della seconda metà del Duecento, come si nota nelle miniature della Bibbia di Manfredi, eseguita durante il regno di Manfredi (1258-1266) dallo scriba Iohensis, nei rilievi dell’Arca di san Domenico a Bologna della bottega di Nicola Pisano (1264 -67) o in quelli dello stesso Nicola e del figlio Giovanni nella Fontana maggiore a Perugia (1275-1278). La moda di acconciare i capelli “a rullo” la ritroviamo a Napoli tra i sovrani angioini e il seguito della loro corte già nei primi decenni del Trecento, come si evince dalla pala San Ludovico di Tolosa incorona re Roberto, eseguita nel 1317 da Simone Martini. Ritornando al dipinto laertino possiamo notare che il pittore non uniforma il modo di vestire dei giovani pellegrini, ma li adegua alla moda dell’abito “bipartito” o “divisato”,ovvero il “mi-parti” francese; in particolare, il primo pellegrino in basso a sinistra indossa una veste bicroma in rosso e giallo ocra, simile a quella portata dal prefetto Olibrio nella scena dei tre cavalieri a galoppo nella passio di santa Margherita della chiesa rupestre di sant’Antonio del Fuoco a Laterza. Nuovi gusti nel vestiario femminile nel trittico della Buona Nuova a Massafra – Tradizione e innovazione nell’abbigliamento femminile è possibile notarlo nel trittico di santa Caterina, san Vito e Santa Lucia nella Buona Nuova di Massafra. Santa Lucia è raffigurata in posizione frontale, indossa una veste verde manicata con lo scollo ornato da un largo gallone d’oro impreziosito da perle bianche e da quattro pietre preziose due rosse e due verdi disposte in maniera alternata. Una fila di dieci bottoni decorano dal gomito al polso le strette maniche della veste, che è adornata da una cintura rossa con guarnizioni d’argento a “rosetta” e a “farfalla”, tipologia in voga tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo ed è quasi identica a quella conservata nel museo di Cluny a Parigi e datata al terzo o al quarto decennio del XIV secolo. Un ampio mantello rosso, foderato di verde, scende dalle spalle di santa Lucia fin oltre l’altezza delle ginocchia; la santa ne raccoglie e stringe davanti i lembi con la mano destra. La mano sinistra regge una ciotola di colore giallo-ocra decorata con disegni a triangolo in marrone con all’interno delle puntinature in bianco; la cavità interna dipinta di rosso, presenta la rappresentazione di due occhi: gli attributi dell’iconografia della Santa. La ciotola per la tipologia e la decorazione rientra negli esempi delle invetriate angioine prodotte in età meridionale tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo. Dal lungo abito verde fuoriescono piedi calzati da scarpe appuntite, colorate di rosso e di giallo. La parte centrale delle scarpe è impreziosita con pietre preziose verdi e rosse circondate da perline bianche. Il capo di santa Lucia è coperto da un velo bianco trasparente, con frange all’estremità, che cade sulle spalle e copre i capelli di colore castano chiaro, ornati da un sottile diadema di perle dal quale si dipartono due vitte perlate che scendono ai lati del volto. Le donne presero ad indossare il velo sul capo come segno di modestia soprattutto nel XIII secolo, fino a divenire in età angioina un oggetto di ricercata eleganza e strumento per l’abbellimento della persona. Veli finissimi di seta o di bisso incorniciavano delicatamente i volti femminili valorizzandone i tratti, che combinati con candide perle riuscivano a creare effetti di rarefatta eleganza. I capelli di santa Lucia lasciano liberi i lobi delle orecchie da cui pendono vistosi orecchini costituiti da due cerchi con un grosso globo perlato terminale, identico ad un orecchino recuperato in una tomba nei dintorni di Carpignano Salentino, la cui datazione al XIV secolo è confermata dal ritrovamento nella bocca del cadavere, come viatico di una monetina d’argento angioina. L’orecchino “a due cerchi con un grosso globo perlato terminale” è un elemento importante di datazione per gli affreschi eseguiti tra la fine del XIII e il XIV secolo; in particolare nell’ambito del rupestre tarantino, adorna le orecchie di: santa Barbara nel santuario della Madonna delle Grazie a San Marzano, santa Barbara dell’omonima chiesa di Ginosa, Santa Ciriaca nel santuario della Mater Domini a Laterza, santa Margherita nella chiesa della Mater Domini a Trovanza in territorio di Massafra. Santa Caterina non è da meno per lo sfarzo dei suoi vestiti. È rappresentata anch’essa in piedi e frontale, indossa una sopravveste blu scuro, con lunghe maniche aperte, che rivela la veste manicata color porpora. Una fila di dieci bottoni decorano dal gomito al polso le strette maniche della veste. La testa è adornata da una corona gigliata di colore rossastro impreziosita da perle bianche e da pietre preziose. In provincia di Taranto, in ambito rupestre, la corona gigliata è presente sul capo di santa Margherita nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Massafra, di santa Caterina d’Alessandria nel dittico con Santa Lucia nella chiesa di santa Maria del Pesco a Castellaneta e nella rappresentazione della vita di santa Margherita nella chiesa di Sant’Antonio del Fuoco a Laterza.
Lingtbown, esaminando una testa coronata in marmo, proveniente probabilmente dalla Campania, ed ora conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, databile al 1270 circa, sostiene che la corona come segno di rango e di ricchezza, ma non necessariamente di regalità, fu introdotta nell’Italia meridionale dopo il 1266 dagli angioini. Ma confronti più mirati possono essere fatti con le corone presenti nella pala di San Ludovico di Tolosa incorona re Roberto, dipinta da Simone Martini e conservata al museo di Capodimonte a Napoli, ascrivibile intorno al 1317, data della canonizzazione di san Ludovico. Altro dato è la miniatura del “Consesso dei nove re” all’inizio del secondo volume dello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais, eseguito per Filippo II di Haya, cancelliere di re Roberto d’Angiò ed abate di Cava dei Tirreni nel 1330. I volumi sicuramente sono stati eseguiti nello scriptorium dell’Abbazia di Cava dei Tirreni dove ancora si conservano. Il trittico della Buona Nuova, anche se anonimo e senza data, dall’esame stilistico e dall’indagine dei vestiti, ornamenti, oreficerie, aspetti paleografici rientra a pieno titolo in quel filone artistico-culturale della corte angioina di Napoli della prima metà del XIV secolo, in cui Leone de Castris nota “uno straordinario episodio di “gotico lineal” che verrebbe voglia di definire franco-maiorchino”, eseguito da un pittore meridionale di gusto transalpino tra il 1300 e il 1310 circa.