XIII Giornate Nazionali di Studio sul Vetro – Trieste 30/05/2009, Piran (SLO) 31/05/2009

I VETRI NELLA RICERCA ARCHEOLOGICA DEGLI ULTIMI TRENT’ANNI IN PUGLIA E BASILICATA – Intervento di Roberto Caprara

Non ricca e relativamente recente è, in Puglia e Basilicata, la produzione scientifica sui vetri provenienti da scavi archeologici, tanto che possiamo considerare come incunaboli due contributi usciti contemporaneamente poco più di quarant’anni fa.

Il primo (Harden 1966) tratta di frammenti provenienti da ricognizioni di superficie o piccoli saggi di scavo, aperti in area foggiana presso insediamenti abbandonati, come Castel Fiorentino, Motta della Regina, Petrulla, Salpi e datati fra XII e XIII secolo, per confronto con reperti di Corinto rinvenuti nello scavo delle fabbriche di vetro sull’Agorà distrutte, ma forse non completamente, dai Normanni nel 1147.

Il secondo (Whitehouse 1966), parla di frammenti vitrei rinvenuti sotto la Cavallerizza di Federico II, nel Castello di Lucera, messi in relazione con la figura dell’Imperatore. Si tratta di un’ottantina di reperti cavi e di molti reperti di lastre da finestra di colore e forme diverse. Fra i vetri cavi si annoverano esemplari dorati e smaltati, provenienti dal mondo islamico e dal Regno latino di Gerusalemme datati fra il 1260 e il 1290, ma soprattutto frammenti di bicchieri dal corpo troncoconico decorato da bugne in rilievo e “a chiocciola” e di altri oggetti di vetro incolore  (fig. 1) che l’Autore giudica di fabbricazione locale. Puntualizzazioni recenti su questi materiali sono in Bertelli 1990b.

Citeremo ora materiali di vecchi scavi rimasti inediti che ci paiono interessanti.

Nel 1973, nello scavo di un pozzo di butto[1] nella chiesa rupestre di San Gregorio (fig. 2), a Mottola (Taranto), tra numerosi frammenti fittili di XIII e XIV secolo rinvenni un frammento di bicchiere di vetro con bugne “a chiocciola” [2] perfettamente confrontabile con quelli pubblicati da Whitehouse 1966 che abbiamo appena visto, circostanza che insinuò il dubbio che tali manufatti non fossero peculiarità esclusiva di ambienti “alti”, se un frammento si era potuto rinvenire in ambiente di villaggi rupestri, considerati, soprattutto allora, poveri, rozzi e incolti..

Nello stesso anno, nella grotta carsica che, dal culto micaelico precocemente installatovi, ha preso il nome di San Michele, a Massafra (Taranto) (fig. 3) in strati purtroppo sconvolti da clandestini[3], nel corso di scavi condotti da chi scrive con i giovani dell’Archeogruppo locale furono repertati numerosi frammenti vitrei, generalmente verdi e giallo chiaro, dei quali fu data notizia in una pubblicazione preliminare[4] (Archeogruppo 1974), ove vennero confrontati con manufatti siriaci e palestinesi di II-III secolo e con vetri di VI-VII. Si trattava di frammenti di ampolline e di lampade da sospensione (figg. 4, 5), come si dedusse da frammenti di catenelle di rame e di bromzo rinvenuti insieme. Ma il rinvenimento di fondi piani con umbilicatura centrale (fig. 6) subito dietro un pluteo, lascia pensare che vi potessero essere anche appoggiate  La duplicità dei periodi di datazione dei frammenti (ma si pensi alle conoscenze dell’epoca), con uno hiatus per i secoli IV e V, portò alla conclusione, sia pur provvisoria, che il culto micaelico, stabilito nella grotta naturale non prima del VI secolo, fosse stato preceduto in epoca classica e forse ancor prima da un culto per divinità chtonie o salutari, data la presenza di un laghetto di stillicidio, propizio alla instaurazione di un culto delle acque, in un ambiente carsico privo di acque superficiali..

Questo intervento non tratterà – anche per comprensibili ragioni di tempo – di tutta la bibliografia disponibile, ma si soffermerà su alcuni punti nodali dello sviluppo della ricerca.

Alla fine degli anni settanta Raffaele Iorio dà notizia del rinvenimento a Belmonte di Altamura (Bari) di frammenti vitrei, prevalentemente ansette bifide (fig. 7) “che divergono ad asola nel punto di saldatura all’orlo a risega del vaso” (Iorio 1977/78, p. 126, tav. CLXIII).

Sui vetri di Belmonte (fig. 8) ritornerà, molto più tardi, negli anni novanta, Roberto Giuliani (Giuliani 1994, pp. 376-385), che nell’introduzione al catalogo ci rammenta che i vetri da Belmonte si presentano in numero scarso e ad alto grado di frammentazione ma che, malgrado questo, è stato possibile isolare, come forma preponderante, quella di un particolare tipo di lampada caratterizzata dalla presenza di anse in pasta vitrea sormontante l’orlo.

Realizzate in vetro soffiato, queste lampade sono di colore variabile tra il verde e il giallo chiaro, con presenza di microbolle e talora di piccolissimi inclusi biancastri o grigi. L’Autore si sofferma sul particolare procedimento con cui dovevano essere realizzate le ansette: alla sommità dell’orlo doveva essere fissata una barretta di pasta di vetro, sollevata dapprima verso l’alto e poi ripiegata verso il basso, per essere saldata all’orlo in un secondo punto, in modo da definire una forma triangolare con la porzione di orlo sottesa. La “divergenza ad asola” nel punto di saldatura all’orlo (fig. 9), notata da Iorio 1977/78 è spiegata con il distacco dello strumento adoperato per compiere l’operazione, che veniva così a creare un occhiello più o meno allungato alle estremità dell’ansa.

Le lampade hanno base piana, con umbilicatura centrale più o meno accentuata, del diametro tra 2,5 e 4,5 cm, attacco alla parete arrotondato, corpo tronco-conico, dato che il diametro all’imboccatura misura fra i 10 e i 15 cm.; il bordo è inflesso, ispessito, profilato all’esterno con orlo arrotondato o appuntito. Le anse verticali lo sormontano anche di 2,5 cm, e, per la lacunosità dei bordi non è stato possibile stabilire se le lampade fossero dotate di due o tre anse.

L’Autore osserva che queste lampade sia nella forma che nella tecnica di lavorazione non trovano specifiche possibilitòà di comparazione nelle classificazioni tipologiche di età tardoromana, ma trovano confronti possibili in altri siti centro-meridionali, in particolare a San Vincenzo al Volturno, dove catenelle di bronzo nei medesimi contesti stratigrafici hanno chiarito la tecnica di sospensione delle lampade stesse.

Quanto alla cronologia, una riflessione sui manufatti di San Vincenzo, dove un primo tipo è datato fra V e VI secolo ed un secondo, prodotto nei laboratori vetrari del Monastero nel IX secolo, porta a ritenere che i frammenti di Belmonte non possono essere riconducibili alla stessa successione, in quanto presentano una coesistenza di elementi che a San Vincenzo appaiono nell’uno o nell’altro tipo. D’altra parte, è da escludere la possibilità di datare i vetri di Belmonte al IX secolo, perché sono stati ritrovati nell’area della chiesa (fig. 10, pianta) ed in tombe, il che ne chiude il periodo di uso (e forse di produzione, perché a Belmonte è stata ipotizzata una produzione locale) tra V e VII secolo.

Ma questa digressione su Belmonte è uno hùsteron pròteron, perché  è con gli anni ottanta che è incominciata veramente l’attenzione per i vetri.

Già nel 1981 Maria Rosaria Salvatore pubblica un calice di vetro verde chiaro (fig.11), con piede piano e lungo corpo con orlo lievemente espanso ed ingrossato (Salvatore 1981, p. 133, fig 4d) dalla ricca tomba 7 del sepolcreto di Rutigliano (Bari), che, per l’associazione con una coppia di orecchini aurei semilunati (fig. 12)  datati alla fine del VI o agli inizi del VII secolo, esige una simile datazione.

Il 1981 è anche l’anno in cui esce Whitehouse 1981, con note sul vetro tardomedievale in Italia, troppo noto perché se ne debba qui parlare, che contiene alcune osservazioni sui vetri pugliesi.

Nel 1987 si pubblica un eccellente catalogo sui vetri romani nel Museo Archeologico Provinciale di Brindisi (Bertelli 1987a) un genere di lavori dei quali si parla solitamente poco, perché le collezioni museali sono per lo più costituite da oggetti di cui non è nota la provenienza. Ma nel caso di Brindisi la situazione è diversa. Chi conosce la storia della formazione del Museo, dalle origini nel XIX secolo ai giorni nostri, sa che il materiale raccoltovi è tutto di provenienza dall’area della città, salita di ruolo in età romana grazie al concorso di vari fattori, come gli interessi orientali della Repubblica dapprima e, successivamente dell’Impero, la costruzione dell’Appia Traiana e l’incremento dei traffici e dell’economia.

I vetri di cui si tratta sono prevalentemente balsamari (una ventina, di forme diverse) (fig. 13)  e olle cinerarie (fig. 14), con o senza anse, una delle quali con coperchio (fig. 15), tutti evidentemente provenienti da contesti funerari, ma c’è anche una coppa del tipo Zarte Rippenschalen (fig. 16), alta 5 cm, diam. di base 6,5, diam imboccatura 5,6, forma Isings 17, di vetro trasparente verde-azzurro, forma emisferica, decorata esternamente da sottili costolature che si fermano circa 1 cm sotto il labbro leggermente estroflesso e sagomato.

Per quest’ultimo oggetto, diffuso sia in Oriente che in Occidente, ma entro i ristretti limiti cronologici del secondo terzo del I secolo, l’Autrice fa interessanti osservazioni. Solitamente questi oggetti erano realizzati in vetro sottilissimo colorato e attraversato da fitte venature che producono un effetto marmorizzato, come si vede in esemplari ritrovati ad Aquileia, nel Nord Italia, a Corinto. L’area di diffusione e di produzione di questi oggetti rsaffinati è stata localizzata in tre zone principali: l’Italia nord orientale e la Penisola balcanica adriatica, con Aquileia come centro principale di produzione; l’Italia nord-occidentale e la Svizzera, con Locarno come principale centro di diffusione; la valle del Reno con Colonia. Ma l’oggetto di Brindisi non è marmorizzato e si confronta meglio con esemplari integri e frammentari di questo tipo rinvenuti a Sardi e a Morgantina, in Sicilia, di vetro semplicemente colorato, come altri esemplari simili provenienti dalla Siria e conservati nel Museo dell’Ontario a Toronto.

Sempre per Brindisi, i vetri provenienti dallo scavo della necropoli di via dei Cappuccini, ricordati dalla Bertelli, ascritti all’età imperiale e pubblicati sommariamente in De Juliis et Aa. 1984 attendono ancora una pubblicazione scientifica.

Nello stesso anno 1987 la medesima Autrice pubblica i vetri provenienti dallo scavo di Fiorentino nelle campagne 1984-85 (Bertelli 1987b).

Sono, complessivamente, 150 frammenti, in maggioranza pertinenti ad oggetti cavi, ma consistente è anche la presenza (34 frammenti) di vetri piani da finestra.

Tra i vetri cavi sono presenti piedi o fondi, bordi di forme chiuse (bicchieri e bottiglie). Sono state repertati anche frammenti di pietre irregolari ricoperte da uno strato vetroso e frammenti di vetro non trasparente anch’essi di forma irregolare. Il vetro è generalmente di color giallo chiaro, verdino, celeste di varie tonalità. Rari i frammenti color viola chiaro, ottenuto con l’aggiunta di manganese. Non mancano i frammenti incolori.

I piedi sono generalmente arrotondati e non molto sporgenti. I fondi, talvolta, sono a campana. In un unico esemplare l’orlo del piede risulta decorato da un motivo a dentelli (fig. 17). Tra i fondi, si segnala quello, piccolo e arrotondato, di un balsamario di color verde scuro, per cui l’Autrice chiama a confronto frammenti simili rinvenuti a Torcello negli strati VI e IV, riconducibili al periodo fra il VII e il XII secolo e per i quali ipotizza una continuità diretta con la produzione romana. Le pareti sono molto sottili, le decorazioni a bugne o fili orizzontali applicati, il già citato piede a dentelli. Il collo di una bottiglia in vetro giallino è decorato da un motivo ad onde (fig. 18), che richiama alla memoria l’antico opus pavonaceum, con la differenza che qui le onde sono sovrapposta in linea verticale su più registri.

La Bertelli si diffonde, quindi in considerazioni sui frammenti con bugne e con piccole protuberanze, sul piede dentellato, già rinvenuti in altre zone pugliesi e assegnati al periodo tra XIII e XIV secolo. Per il piede dentellato ricorda rinverimenti a Fiorentino, in ricognizioni di superficie, e a Brindisi, a San Pietro degli Schiavoni, datati al XIII secolo. Ma ricorda gli esemplari di Castelseprio, in strati di VI-VIII secolo, con base a dentelli, e quelli di Torcello, dal IV strato del II scavo, con piede a dentelli e bugne, del X secolo, quelli di Cividale II del XIV secolo ed i reperti di Grosseto (fig. 19) datati alla seconda metà del XIII secolo[5]. Ricorda che il Lamarque[6], studiando i reperti di Tuscania, ipotizza che questi vetri incolori possano derivare dalla produzione pugliese cui, secondo lo studioso, debbono essere ricondotti gli esemplari più antichi. I reperti di Tuscania, invece, si collocano cronologicamente nella produzione europea che ha dato ritrovamenti in Olanda, Svizzera, Penisola balcanica e Gran Bretagna.

Il rinvenimento di tipi con basi dentellate a Torcello e Cividale, secondo il Gasparetto[7], che si rifà anche ad altri studiosi, testimonierebbe che questi oggetti, di vetro incolore, sarebbero stati importati da Venezia dalle fabbriche di Corinto nell’XI e XII secolo, anche se gli esemplari corinzi sono variamente colorati. Venezia, poi, li avrebbe diffusi in Europa, particolarmente in Italia e specialmente in Puglia.

Questo tipo di bicchiere è documentato a Venezia già nel 1280 e l’Autrice ricorda che solo a Venezia si riusciva a fabbricare vetro perfettamente incolore.

Ma il rinvenimento di una base anulare dentellata a Castelseprio, nel pozzo del II strato d’età longobarda fa ritenere che questo tipo sia stato introdotto in Italia sulla scorta di esemplari siriaci[8]

Non v’è accordo fra gli studiosi sul problema dei centri di produzione di bicchieri a base dentellata, ma va sempre più perdendo attendibilità quanto proposto a suo tempo dalla Davidson[9] che ipotizzava la fabbricazione di questi bicchieri a Corinto, da dove sarebbe stata importata in Italia dopo il 1147 da maestranze profughe che si sarebbero stabilite in Puglia e in Sicilia. Tesi opposta à sostenuta, come abbiamo già visto, da  Whitehouse 1966.

Un’altra variante è quella del bicchiere a coppa decorata a gocce con base anulare liscia e bocca dello stesso diametro.

Lo scavo ha restituito anche una trentina di frammenti di vetri da finestra (fig. 20), fra cui uno, ricomposto da tre frammenti minori, con profilo ad andamento semicircolare, di vetro trasparente color blu cobalto, con motivi ornamentali di tipo vegetale eseguiti a risparmio su un fondo color crema.

Nell’anno successivo, in un’importante volume dedicato allo studio degli scavi e dei materiali di un intervento condotto trentacinque anni prima e rimasto inedito a Piano di Carpino (Foggia), Amelia D’Amicis e Cosimo D’Angela pubblicano i vetri, pur premettendo che “Limitata a pochi esemplari integri e ad un numero esiguo di frammenti, l’esemplificazione di vasellame vitreo restituito dagli scavi non consente di aggiungere molti elementi chiarificatori al quadro, per altro ancora vago, sulla diffusione del vetro in età romana nel territorio apulo”. Ad aggravare le difficoltà dello studio, la mancanza di qualsiasi riferimento stratigrafico o contestuale, non registrati durante le varie fasi di scavo, fatto che rende problematico l’inquadramento cronologico dei reperti”.

I frammenti databili al I-III secolo sono pubblicatui dalla D’Amicis, con confronti sistematici con la tipologia della Isings: si tratta, prevalentemente, di balsamari di cui uno olliforme (fig. 21).

I materiali tardoantichi sono editi da D’Angela e sono due bottiglie, due bicchieri a calice un frammento di fondo di lampada ed uno di armilla tortile (fig. 22). Le bottiglie sono una caratterizzata da un collo cilindrico imbutiforme, tipico di forme tarde, che l’Autore confronta con una dovizia di materiali dal III al VII secolo, ed una con collo a imbuto e corpo piatto a sezione quadrangolare, confrontabile con la forma Morin-Jean 38[10], attestato dal I secolo, ma generalmente di epoca tarda.

I bicchieri (fig. 23) trovano confronti in manufatti attestati fra IV e VII secolo.

Da questo panorama, come si vede, è assente la provincia di Taranto, non perché i vetri non vi abbiano circolato, ma perché scarse sono state le ricerche e avare le pubblicazioni[11]. Non sarà un caso che, su tre scavi da me condotti in anni lontani nell’area, in due ho rinvenuto, come ho già detto frammenti vitrei. E non valga come alibi il dire che l’habitat in questa provincia è prevalentemente rupestre, perché quei villaggi sono ricchi di sorprese inaspettate. Recentemente, ad esempio, nel villaggio rupestre di Madonna della Scala a Massafra (Taranto) abbiamo rinvenuto scorie di fusione del ferro[12]. Gli archeometristi dell’Università di Bari che le hanno studiate le hanno trovate analoghe a quelle rinvenute nel sito di Torre di Mare a Metaponto (Matera)[13], dove hanno stimato temperature di utilizzo della fornace superiori a 1100 C°. E dove si è in grado di ottenere quelle temperature non è impossibile produrre anche il vetro.

Infatti, Bertelli 2002, p. 241, iniziando a parlare dei reperti vitrei di Torre di Mare, e sulla scorta di alcune scorie ivi rinvenute, scrive: “Interessanti sono i ritrovamenti di più di un residuo di lavorazione di vetro dalle forme diverse; si dovrebbe trattare di prove di fusione della massa vitrea non ancora depurata, forse indicative della presenza nell’area di una piccola fornace per la lavorazione del vetro. Nell’US 3 sono state rinvenute, inoltre, come anche nelle US 5, 7 e 20 della stessa srea, numerosissime scorie relative alla lavorazione del ferro; probabilmente, data la quantità sostenuta dei rinvenimenti, si puo’ ritenere possibile che si sia intercettato un butto di una fornace adibita alla lavorazione di tale metallo, la cui ubicazione risulta per il momento ancora ignota”.

Dunque, in uin piccolo abitato merginale e relativamente povero, come indicano tutti i dati di scavo, era possibile la presenza di fornaci per la fusione del ferro e di officine per la produzione del vetro.

Tra i reperti vitrei (fig. 24), si segnalano diversi piedi a campana più o meno accentuata o coniforme riferibili a bottiglie e bicchieri, ad anello tubolare schiacciato, a base circolare piatta; frammenti di bordi svasati con orlo arrotondato estroflessi o introflessi, pertinenti a bottiglie dal collo allungato e decorati talvolta da motivi a leggere costolature, il cui esame porta a concludere per una cronologia dal XIII a tutto il XIV secolo.

Sono attestate anche alcune pareti con bugne in rilievo applicate, fra le quali è possibile distinguere vari tipi: in qualche caso le bugne hanno dimensioni ridotte ma sono ben rilevate e sporgenti, in altri casi si tratta di grossi elementi, del diametro di circa 2 cm, di forma circolare o allungata, arrotondata sulla sommità.

Sono frammenti di bicchieri, o comunque di forme aperte, con piedi anche dentellati, attestati in Puglia dall’età federiciana fino a quella angioina. L’Autrice richiama l’attenzione su un frammento di base circolare ad anello leggermente schiacciato ed avvio di parete verticale arricchita da una piccola bugna pertinente a bicchiere che trova riscontri precisi in esemplari da San Pietro degli Schiavoni a Brindisi e dal Palazzo dello Steri a Palermo.

Si tratta di frammenti di bicchieri decorati con bugne che non presentano mai piedi dentellati (fig. 25), dei quali si è detto trattarsi di produzione locale siciliana di XII e XIII secolo, considerate varianti del bicchiere o coppa con decorazione a goccia sulle pareti e con base a dentelli prodotti a Corinto nel XII secolo.

Di questo tipo particolare di bicchieri sono stati rinvenuti frammenti a Lucera, riferiti ad età federiciana, a Petrulla, nel foggiano, a Castel Fiorentino, a Brindisi, a Otranto. Sono stati più volte segno di attenzione, per la possibilità di identificare il luogo originario di produzione, identificato solitamente con Corinto, centro attivo almeno fino alla metà del XII secolo, quando, nel 1147, sopravvenne la già ricordata distruzione delle fornaci ad opera dei Normanni, che però non fu – secondo alcuni – completa. Secondo l’ Harden, in seguito all’evento del 1147 vi fu uno spostamento di maestranze da Corinto verso la Puglia e l’Italia meridionale, mentre Whitehause ha ipotizzato un movimento in senso contrario per la migrazione di questi tipi dall’Italia alla Grecia, perché a Corinto sono stati rinvenuti frammenti di maiolica arcaica, manufatti tipici dell’Italia meridionale.

Ma già parlando dei vetri di Castelfiorentino abbiamo osservato come l’Autrice abbia fatto riferimento alla presenza di tali motivi già in età altomedioevale, argomento sul quale qui ritorna, ma sul quale noi non torneremo a soffermarci.

Riprendendo un’opinione di Gasparetto, pensa che la diffusione di questi tipi sia dovuta agli intensi rapporti commerciali con l’Oriente, e in particolare con la Grecia,  di Venezia che li avrebbe importati già dall’XI secolo in Italia e nella Penisola balcanica. Però aggiunge di pensare ad una continuità dall’età tardoantica (ritrovamenti di Sardis ed altri centri orientali) attraverso l’altomedioevo (Castelseprio e Torcello) fino alla sua diffusione, intorno al Mille, in Occidente, per il tramite di città che, come Venezia, avevano intensi scambi con il vicino Oriente. Sostiene la sua tesi anche  il ritrovamento di bicchieri con bugne a Poggio Imperiale (Siena), dove sono stati attribuiti all’VIII e IX secolo.

Nello stesso anno esce un altro contributo importante, quello di Maria Teresa Giannotta, sui vetri rinvenuti negli scavi a Otranto (Giannotta 2002), che si segnala per il numero degli esemplari studiati e l’ampiezza delle  fasi cronologiche, che vanno dall’età augistea alla fine del Medioevo (XV secolo e oltre) I vetri sono 22 esemplari integri, tutti provenienti dalla necropoli ed oltre 1100 frammenti, molti dei quali non classificabili. Quelli classificati, infatti, sono 252.

I vetri romani (fig. 26) sono considerati unitariamente, anche se provengono da tre diverse fasi (I, II, III) e vengono distinri per forme, con riferimento a Isings 1957.

Fra questi vetri sono state identificate 19 forme, fra unguentari, coppe, bicchieri, bottiglie, un piatto, un’urna. Cronologicamente, sono stati identificati due distinti periodi: un primo gruppo, databile dall’età augustea alla prima metà del II secolo,  è pertinente alle prime due fasi della necropoli, mentre il secondo, databile ai secoli IV-V, si riferisce alla prima parte della fase III.

L’Autrice fa osservare l’assoluta preminenza della presenza degli unguentari fra i materiali provenienti dalla necropoli (18 su 46 reperti) e del bicchiere e del calice (rispettivamente 29 e 17) fra i materiali vitrei tardoromani. Sono tutti vetri importati, per i quali non è possibile indicare centri o aree di produzione, perché forme prodotte comunemente in tutto il bacino del Mediterraneo e comunque ben attestate nel Salento, come le coppe, presenti a Leuca, gli unguentari, a Brindisi, l’urna con ansa a M, che abbiamo già visto a Brindisi, il calice, che abbiamo visto a Rutigliano.

Dalla fase IV (IX-tardo XI secolo) (fig. 27) provengono 22 esemplari classificabili, riferibili a due sole forme: il calice e la bottiglia. I 18 calici comprendono cinque varianti, che hanno in comune lo stelo pieno e il piede a disco; la coppa può essere a tulipano o a profilo globoso o avere pareti espanse. In un caso è ripiegata in maniera da formare un anello. Lo stelo è in genere alto e rastremato e in un caso presenta un elemento lenticolare posto in alto, presso la vasca. Il colore del vetro è, tranne in un caso, giallino molto chiaro, verde-azzurro in varie gradazioni e sfumature.

I confronti, sia per le forme che per il colore, sono con i calici di Corinto, tanto che l’Autrice avanza l’ipotesi di importazioni da quel centro.

Quanto alla cronologia, uno dei reperti (il n. 58) viene, sia pure con cautela, attribuito al IX secolo, mentre gli altri  vengono fatti risalire alle prima metà dell’XI secolo e le bottiglie, di tradizione altomedievale e richiamanti prototipi datati al VII secolo (n. 65), ancora per confronti con materiali corinzi, si datano al X secolo, ed una (la n. 67) con decorazione optic blown, considerata originaria dell’Egitto, è datata a non meglio precisata età tardo-bizantina, anche se questa decorazione si ritrova su prodotti veneziani di XIV secolo.

I vetri medioevali appartenenti alla fase V (fine XI-XII secolo) (fig. 28) a parte un piatto, sono riferibili esclusivamente a calici (5) e a coppe(ben 17). Uno dei calici (n. 68), con stelo pieno, è da assimilare morfologicamente agli esemplari della fase IV e, come quelli, trova confronti in prodotti corinzi, mentre gli altri hanno lo stelo vuoto, come in esemplari rinvenuti in Italia settentrionale.

Le coppe sono divise in due gruppi: quelle soffiate in matrice e quelle semplicemente soffiate. Le prime sono decorate a rombi, cerchietti e costolature oblique a rilievo, mentre le seconde hanno decorazioni applixate a rilievo, dello steso colore o di colore differente. Quelle del primo gruppo trovano confronti con materiale di Corinto e sono databili al XII secolo, mentre fra le seconde solo una trova confronto con un esemplare corinzio.

I vetri pertinenti alla fase VI (XIII-inizi XIV secolo) (fig. 29), 57 esemplari, presentano una più ampia gamma di tipi, anche se le funzioni d’uso, a parte una giara, sono borriglie, bicchieri e coppe, anche se fra questi ultimi spesso è difficile la distinzione, dato lo stato di frammentarietà. Forse vi sono anche lampade, se a queste sono riferibili alcune ansette.

Dal punto di vista tecnico, anche fra i vetri di questa fase si puo’ operare la distinzione fra vetri soffiati e vetri pressati in matrice. Tra quelli decorati a rilievo, vi sono esemplari della ben nota classe bugnata, oggetto di vivo dibattito fra gli specialisti, soprattutto per la loro cronologia rispetto al luogo di produzione. Ma a questo dibattito abbiamo già accennato e qui abbiamo solo da dire che l’Autrice sembra propendere per l’opinione di Gasparetto, per il quale sarebbe stata Venezia, in rapporto con Corinto, a svolgere il ruolo di principale centro di produzione e diffusione di questo tipo nel bacino adriatico.

I rinvenimenti di Otranto,a questo proposito, forniscono alcuni interessanti contributi. Innanzitutto la cronologia, XIII o al massimo inizi del XIV secolo; poi il colore e la qualità del vetro, abbatanza omogeneo rispetto ad altre produzioni coeve e della successiva fase VIII, di produzione vorosimilmente pugliese, il che induce a pensare anche per i materiali otrantini a produzione locale. L’Autrice ricorda che questi bicchieri sono diffusi in Salento, come , ad esempio, a Brindisi, prodotti nello stesso tipo di vetro.

Spesso associati a questo tipo di bicchieri si trovano, come in numerosi centri italiani, particolarmente meridionali, quelli a bugne e linee blu applicate a rilievo.

Anche questo gruppo pare derivare da prototipi di Corinto, dove questo tipo di decorazione si trova sull’orlo di bicchieri costolati tutti, tranne un esemplare in vetro verde, prodotti in vetro incolore o con lievi sfumature giallo-olivastre.

In un terzo gruppo, le linee applicate sono nello stesso colore del vaso.

Tra le cinque bottiglie provenienti dalla fase VI, due, in vetro blu, appartengono alla classe di quelle smaltate e dorate rinvenute in varie parti d’Europa e, oltre che ad Otranto, a Tarquinia.  Per la cronologia, c’è accordo fra gli studiosi, che ne pongono la produzione fra XII e inizi XIII secolo, ma l’accordo vien meno quando si tratta di definire i centri di produzione, perché alcuni pensano ad un centro unico, Costantinopoli, altri, invece, a diversi centri.

Le altre tre, con collo ad imbuto, si confrontano con materiali corinzi, ma non solo con essi, perché esemplari simili si sono trovati in Italia, particolarmente nel Veneto.

La fase VII non ha restituito vetri, tranne due frammenti non classificabili.

La fase VIII (XV secolo ed oltre) ha dato forme riconducibili a bicchieri e bottiglie, con l’eccezione di un rhiton e due coppe non illustrati. Le tecniche di produzione sono quelle già incontrate nella fase VI ed i confronti generalmente in Italia e per lo più i materiali paiono produzione locale.

Oggi, sono in corso, particolarmente nel Salento, studi e pubblicazioni.

Cito però una divertente osservazione, fattami in una comunicazione privata dal prof. Paul Arthur, dell’Università del Salento: “Intanto, per i vetri da noi, c’è molto, e poco. Abbiamo scavato molto, e abbiamo pubblicato poco”.

Però nel prossimo volume di Archeologia Medievale  sarà citato il rinvenimento di un importante calice (fig. 30) dal villaggio di VII-VIII secolo che l’Arthur sta scavando  in Loc. Scorpo, a Supersano (Lecce)[14]. E’ un’importazione dal nord Italia, in un momento in cui l’economia di mercato era quasi nulla. A parte un altro frammento ora riconosciuto a Le Centoporte a Giurdignano (Lecce) i confronti sono a Monte Barro, Aquileia, Koper (Capodistria), Comacchio e San Vincenzo al Volturno..

I vetri dal sito Le Centoporte (Giurdignano) sono in corso di stampa presso Congedo Ed., Galatina, nel volume di scavo a cura di P. Arthur. I vetri li ha studiati Gioia Bertelli e vanno dal V/VI sec. in poi.

Sono in corso di studio anche i vetri dai villaggi medioevali abbandonati salentini di Quattro Macine ed Apigliano (vetri dall’XI al XV sec.), nonché un gruppo di alto livello sociale dal Castello Carlo V di Lecce (XV-XVI secc.).


[1] Il pozzo, a bocca rettangolare, era forse in origine un silos destinato alla conservazione di cereali offerti dai fedeli solo successivamente trasformato in butto.

[2] I materiali di quello scavo, depositati presso la Biblioteca Civica di Mottola andarono dispersi, prima che si potesse procedere alla pubblicazione, nella fase di disordine e di abbandono della struttura seguita alla scomparsa dell’ultra novantenne direttore della Biblioteca.

[3] Fra i reperti, segnaliamo, due monete di bronzo bizantine, una di Giovanni I Zimisce (969-976) ed una probabilmente di Michele IV Paphlagonico (1034-1041), una minuscola crocetta patente di piombo, datata al X-XI secolo da R. Jurlaro, Studio sulla crocetta rinvenuta nella grotta di S. Michele, in Archeogruppo 1974, pp. 57-60, ed una moneta d’argento con le effigi di Ferdinando il Cattolico sul R. e di Isabella sul V., databile al 1503-\504, che è il reperto di più bassa datazione

rinvenuto.

[4] I materiali, depositati presso la Soprintendenza Archeologica di Taranto, non sono poi stati oggetto di una publicazione scientifica.

[5] R. Francovich, S. Gelichi, Archeologia e storia di un monumento mediceo. Gli scavi nel ‘cassero’ senese della Fortezza di Grosseto, Bari 1980, p. 106, dove gli Autori sottolineano l’eccezionalità di tale “abbondanza di vetri in una struttura così povera” (una capanna), che induce ad una datazione bassa.

[6] W. Lamarque, The Glassware, in J. B. Ward Perkins et Aa., Excavations at Tuscania 1974; Report on the Finds from six selected Pits, “Papers of the British School at Rome”, XLI, 1973, pp. 124-126.

[7] A. Gasparetto, Matrici e aspetti della vetraria veneziana e veneta medievale, “Journal of Glass Studies”, XXI, 1979, p. 85, con relativa biografia.

[8] A. Gasparetto, Matrici e aspetti, cit. a n. preced., p. 86. Il medesimo Autore, in Les verres medievauxrècemment decouverts à Murano (Rapport préliminaire), in Annales du 7ème Congrès de l’Assoc. Interbat, pour l’Histoire du Verre, Liège 1978, p. 248, ritiene che la forma sia originaria dell’Egitto, dove ne sono state rinvenute di analoghe risalenti al IX-XI secolo.

[9] G. Davidson, The minor objects, in Corinth XII, American School of Classical Studies at Athens, Princeton – New Jersey 1952.

[10] Morin-Jean, La verrerie en Gaule sous l’Empire Romain, Paris 1913, p. 99.

[11] D’Amicis – D’Angela 1988, p. 129, nota 3, osservano: “Limitatamente a Taranto, gli scavi eseguiti dalla fine del secolo scorso in poi nella necropoli riferibile alla fase di frequentazione romana dell’abitato, praticamente inediti, hanno restituito un cospicuo numero di esemplari vitrei, attualmente conservati nei depositi della Soprintendenza e dei quali non è stato mai curato un catalogo”.

[12] P. Acquafredda, M. Pallara, F. Vurro, Indagini minero-petrografiche di un campione di scoria prelevato nella gravina della Madonna della Scala a Massafra (Taranto), in R. Caprara, F. dell’Aquila, Il villaggio rupestre della gravina “Madonna della Scala” a Massafra (Taranto), Massafra 2008, pp. 283-290.

[13] P. Acquafredda, R. Laviano, M. Pallara, F. Vurro, Archeometria di scarti di fornace di età medioevale del sito di Torre a Mare (Metaponto – MT – 2006) in “Innovazioni tecnologiche per i beni culturali in Italia”, Atti del Convegno A. I. Ar. (Reggia di Caserta, 16-18 febbraio 2005) a c. di C. D’Amico, Bologna 2006, pp. 283.291.

[14] L’articolo in cui apparirà il calice è P. Arthur, G. Fiorentino, M. Leo Imperiale, L’insediamento in Loc. Scorpo (Supersano, LE) nel VII-VIII secolo. La scoperta di un paesaggio di età altomedievale “Archeologia Medievale”, in stampa. Il disegno del calice ci è stato fornito, con squisita cortesia, dal prof. P. Arthur.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *